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Generazione Pony Express (parte 1)lettura di 21'

14 Aprile 2020 14 min di lettura

Generazione Pony Express (parte 1)lettura di 21'

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Una macchina è un’arma. Rimane puntata sul suo obiettivo scivolando da una corsia all’altra, le strisce bianche che si susseguono intermittenti sull’asfalto fresco. Preme sul bitume fin quando senti essa stessa divenire parte del tuo corpo: le lamiere epidermiche ti corazzano dai moscerini sparati a velocità proiettile, il cuore batte con la sinuosità dell’alternatore, milioni di articolazioni scricchiolano orchestrate dal cambio manuale. E l’ira skaldica del motore ti spinge ad andare avanti, anche se sei privo di energia. Del resto è questo il tuo destino, la biforcazione ti esige di scegliere al bivio: lasciare che finisca la benzina… o continuare a correre sotto il rombo del motore, ancora un altro chilometro, fin quando sarà lui a comandare anche il tuo ultimo vaso linfatico. Fin quando diverrai ira pura.

Gettai la cicca di Kosmos sul marciapiede desertificato dalla prima mattina, come del resto era tutta la città almeno per un’altra mezz’oretta. Soltanto io, il sole bluastro e le vetrine spente del corso sulla Kalininskaya. I manichini esposti per un pubblico assente, gli schermi neri dei computatori invenduti da Gospodin Robota, la cartaccia solitaria che riusciva a volare anche con quel filo di vento estivo che c’era. Mi stavo giusto chiedendo quanto ancora ci sarebbe voluto, considerando il poco tempo a disposizione, quando la mia solitudine fu finalmente spezzata. Anche stavolta, fu il rombo di un motore. Lontano, inizialmente suggerito, come qualcuno da cui non ti aspetteresti particolari scintille e che ritrovi in prima pagina dietro la parola “strage”. Poi notai finalmente la vernice color crema, selezione cromatica appositamente applicata alla carrozzeria per garantire un qual certo anonimato concedendo almeno un tantino di stile. E infine i lineamenti, mentre quel rombo si abbassava e Kazimir accostava la macchina al marciapiede.

Presi le chiavi e la roba nel bagagliaio. Il pacco era sufficientemente grosso da richiedere la consegna per raccomandata via quattro ruote. Ed era uno di quei viaggi interstatali, di quelli che si mettono a caratteri cubitali quando vuoi pubblicizzare la tua agenzia di posta rapida. Sotto i dipendenti stretti in un sorriso, berretti sulla testa e pacchetti di cartone stretti come un neonato. Kazimir lo vidi allontanarsi dallo specchietto, ripensai a quell’ultima cosa che mi aveva detto sulla benzedrina: ancora una settimana e si sarebbe ucciso. Doveva troppi soldi alla gente sbagliata, così diceva con l’aria che dissipa ogni dubbio. Volevo dirgli che non ne valeva la pena, che un motivo per vivere lo si trovava sempre. Ma alla fine sono rimasto zitto.

Spostai lo specchietto e girai la chiave. A primo orecchio il motore dava soddisfazione, una specie di gingillo accattivante per convincerti ad accettare il posto di lavoro. Non un ruggito o un boato di quelli che interrompono le conversazioni. La macchina si stava solo schiarendo la gola, un suggerimento delle sue potenzialità. Chiusi gli occhi per qualche istante, attendendo che il borbottio metallico formasse delle parole. Non voltarti, non guardarti indietro. Questo diceva. Misi piede sull’acceleratore, quel tanto che bastava per salutare con garbo la mia città e la mia casa, dove non sarei mai più tornato. Le facce che non incrociano mai il tuo sguardo a lavoro, le mani della panettiera che ti passano il resto, la coda di ritorno dal ring. Tutto questo non sarebbe mai più tornato, me ne rendevo conto lasciandomi dietro ogni isolato. La sensazione mi faceva premere il pedale della frizione, così per sfogarmi su qualcosa. La prima volta, all’esame, era stato uno dei motivi per cui mi avevano bocciato. Premevo sulla frizione senza motivo e la cosa non piaceva, come prendere la corsia preferenziale quando quella di marcia è occupata dalle macchine parcheggiate. Ancora nessuno per strada, a parte il mio collega sul treno diretto per non so dove. E così doveva rimanere, un’ultima immagine cristallizzata prima che io partissi. Mai quella città mi era sembrata più vera, senza nessuno. Una casetta per le bambole. O che ne so, un pezzo lego da tenere sulla mensola. Dove nessuno spezzava la pace, né ti rubava i soldi dalle tasche. Sfrecciai col finestrino aperto nell’aria priva di miliziani, almeno un altro paio d’ore prima che le pattuglie si facessero sentire per davvero. E quella sensazione che tornava sempre, all’inizio di ogni viaggio. Un ricapitolo mentale sul gas in perdita e sulle chiavi dimenticate nel pozzetto. Come se tutto questo contasse qualcosa.

Aprii il vano portaoggetti, la roba nascosta la sera prima a lavoro era lì: mappa, Tokarev, adderal, attrezzi… ecco, la radio. Attaccai la radio e finalmente, in mezzo alla paura e al tremito alle gambe, sentivo qualcos’altro: libertà. Si sciolse un nodo in mezzo ai ventricoli, insieme ad una scarica di adrenalina che mi diceva ‘stai facendo la cosa giusta’. Avrei continuato, giuro che avrei lavorato sodo in quella città per il resto dei miei giorni, se solo non avessero attivato quella parte del nostro cervello che si rende conto che ama qualcosa solo quando sta per perderla. Bastava che non dicessero quelle parole, che non diventassero così superbi e avrei passato il resto della mia vita a faticare come loro schiavo, attendendo con ansia il giorno in cui neanche una telefonata del gran capo mi avrebbe alzato dal letto. Ma qualcosa in me ha girato la chiave. E quando è partito il motore non ho potuto farci niente neanch’io. Cazzo, dovevo smettere di fumare. Neanche me n’ero accorto, perso com’ero nella mia testa, che una sigaretta pendeva già dalle mie labbra. Avevo detto di aver finito le Kosmos, non le Soyuz. Con un grugnito, gettai quella merda dal finestrino, insieme al resto del pacchetto. Mossi la mano verso il vano ancora aperto e tutto d’un colpo mi bloccai. Decisi in quel momento che dell’adderal non potevo ancora farne a meno. Sospirai di frustrazione: un passo alla volta, pensai. Avrei dovuto lasciare qualcosa per tappare il vuoto causato dall’assenza di nicotina. C’è gente che ha ancora voglia pure vent’anni dopo aver smesso.

La periferia era a malapena degna di far parte del centro urbano. L’insonnia in quella zona aveva smesso di spadroneggiare solo un’oretta prima. La densità di birre vuote sul marciapiede faceva invidia ai fine settimana nei locali d’alta classe. La prima volta che mi resi conto della necessità di uno stipendio fisso fu proprio da quelle parti. Appiccicato alla gamba di mio padre, da qualche parte di ritorno da una commissione che non riuscivo a ricordare. Mi chiese se avevo paura, ma mi mancò la forza di rispondergli. Per un attimo mi chiesi cosa avrebbe pensato di me, lì, chiuso in quella macchina. No, non farlo. Dovevo lasciarmi dietro i pezzi della mia vita e trovarmi dei mattoncini nuovi. La cosa mi venne piuttosto naturale, come i ricordi che sfumavano via chilometro per chilometro… insieme alle responsabilità e tutto il resto. Non pensavo che avrei mai potuto essere così egoista.

È come sentivo da un po’ in giro tra gli uffici, la casa e le feste a cui partecipi controvoglia: ogni contatto umano si dissolve quando non c’è più un lavoro, quando non hai più orari. Altrimenti perché alzarsi dal letto alle sei? Perché stare a sopportare i tuoi datori di lavoro? Altrimenti come si spiegherebbero le abitazioni sempre più rare man mano che ci si avvicina all’autostrada? La struttura stessa del centro urbano atta a inflazionare l’alienazione, dove persino le baracche sono meglio della solitudine. E finalmente le erbacce cominciavano a prendere il posto a cui spettava. Le segnaletiche sempre più grandi nel disperato bisogno di attirare la tua attenzione che vola lontano, a ottantacinque chilometri all’ora. I quartieri dormitorio in lontananza, macchiette bianche sempre più basse come in decollo su un aereo. La rampa di lancio che spinge contro il sedile, fino a quando sei pienamente nella carreggiata.

E l’autostrada si srotola finalmente, coprendo l’orizzonte. Una pergamena da leggere strada facendo, una corsia per volta. Lo svincolo per Krasnaia non era molto lontano, lo si vedeva dal drastico aumento delle macchine. E dal rumore, nonostante l’ora. Entrai in risonanza col resto del traffico, un ritardatario nell’orchestra. Accelerai restando sulla corsia di destra, senza rivaleggiare col resto del coro o tentare di rubare un assolo ai solisti. Qui non era come in città, dove spesso ti toccava prendere la corsia di sorpasso anche solo perché era l’unica disponibile; con una corsia e mezzo occupata dai parcheggiatori o perché sai che quel tizio davanti a te sta per sostare giusto per due secondi senza neanche mettere una freccia. Nell’autostrada tutto si decide nella frazione di secondo, con una lieve pressione sul pedale. Ce ne sono tanti di stronzi che fanno slalom come sardine o che ti tagliano la strada. Ma quella gente non dura, di sicuro non dietro a un volante. Normalmente, quando ne vedo una, penso a un numero. È tipo testa o croce. Se ti esce pari finisce dietro un paio di sbarre. Altrimenti… beh, sappiamo tutti quanti incidenti lasciano intere famiglie attorcigliate nella carcassa di un’auto. E per questo ed altro quando stavo dietro a un volante mi facevo un pacco di affari miei. Fu quello inizialmente uno dei motivi per cui scelsi quel lavoro, mi era sempre piaciuto guidare. Cioè, guidare di solito è un inferno, ma come disse il vecchio: l’enfer c’est les autres. È

quando sei da solo che non cambieresti quella sensazione per nulla al mondo. Le case dei paesi sulle colline si susseguivano al di là della carreggiata, macchie di colore su una cartolina. E tutti i loro nomi, sui cartelloni degli autogrill, una puntina da aggiungere alla mappa. Insieme al vasto catalogo di motociclisti in giacca di pelle, ferri vecchi degli anni settanta coi barconi sulle spalle ed altre esotiche bestie dell’asfalto, che di rado e tutte timorose si avvicinavano dall’altra corsia per poi sparire per sempre con un rombo.

Scrutando il paesaggio, si fece sempre più strada in me l’idea di aver fatto bene a lasciare il cercapersone a casa. Niente numeri , niente contatti. La patente, unico segno di riconoscimento ufficiale verso le autorità. Lasciata nel portafogli insieme alle circa quarantamila grivne che mi erano rimaste. Non molto, ma tutto quello che potevo portare. Motivo per cui non sono riuscito a fare a meno della Tokarev. Potevo giocare al clandestino quanto volevo, ripetere un paio di principi topografici per lasciare dietro di me ogni possibile tracciamento e potevo “dimenticare” a casa la carta d’identità. Ma la domanda non avrebbe avuto risposta finché non l’avessi vissuta con tutto il mio corpo. Quando la maestra ti tirerà le orecchie tornerai a posto o ti fionderai fuori dalla classe? Quando ti fermerà la polizia sfilerai la patente o la pistola? Essere risvegliati da queste oscure elucubrazioni da un clacson alle spalle è una cosa che non avrei augurato a nessuno. Il buon cittadino dentro di me si chiese subito cosa stessi sbagliando: in una rapida occhiata registrai ogni cosa. La velocità era nella norma, la corsia occupata era quella giusta… fu allora che l’istinto di sopravvivenza spodestò lo scolaretto e disse: quella macchina non era così vicina due secondi fa.

Senza neanche ragionarci sopra, scartai a sinistra sulla corsia di sorpasso miracolosamente vuota. Fu sufficiente a salvarmi la vita, ma non quella del mio specchietto retrovisore destro. Riuscii a registrare solo la manica verdastra del suo braccio che spuntava fuori dal finestrino. Un orologio dorato, forse, ma dopo un femtosecondo soltanto il motore che si allontanava. E rimasi solo, in compagnia del respiro affannoso e dei battiti del cuore. Avevo bisogno di una botta e subito. Quel paio di pillole in gola fu miracoloso, il migliore che mi fossi mai sparato. Probabilmente fu un miscuglio dei sudori della droga, ma un paio di cose mi furono finalmente chiare. La prima era che dovevo ricominciare con la mescalina. Se veramente volevo dire addio agli oppiacei non potevo fare come i tossici da quattro soldi. Non si va mai a pollo freddo, mai. È una cazzata che hanno fatto in troppi prima di finirci secchi. L’ultima cazzata. La seconda era che per la prima volta nella mia vita di corriere dovevo mandare al diavolo il mio codice autostradale. E col piede premuto sull’acceleratore, il motivo della mia rinuncia si faceva sempre più chiaro. Non sapevo se fosse la droga a parlare, ma qualcosa mi diceva che era tutto collegato. La macchina, la fuga, il ricatto che ti legava il culo al cubicolo. Dai un’occhiata là fuori, dalla finestra a sbarre. E in mezzo a quella libertà, le spallate nella fila al supermercato, gli sguardi incattiviti dal tuo passaggio davanti ai distributori automatici. E quei pirati in autostrada che ti tallonavano finché non eri costretto a cambiare corsia col fiato sul collo. E soprattutto quei figli di puttana che ti rompevano lo specchietto, rendendoti più rintracciabile dalla polizia. Tutti loro sono guardiani. Carcerieri di una cella che ti invita a raccattare ancora un altro stipendio, a sopportare. In attesa della vecchiaia, in attesa della pensione. Beh, ora le attese erano finite.

Il mio motore, nonostante la distanza tra me e il pirata, riuscì a portarmi ad un velocità superiore alla sua. Forse portava un ferrovecchio o per qualche motivo aveva rallentato. Ma in un modo o nell’altro, era di nuovo a portata di visuale. Era quello che succedeva: la velocità ti spiazzava, il tempo non era mai sufficiente per prendere una decisione ed essere totalmente certi che non ti avrebbe dilaniato tra le lamiere. Ora era a portata di tiro, vedevo il suo braccio sporgere dal finestrino e la camicia a quadri sbattere rapida tra le raffiche di vento. Senza un’ombra di dubbio, scartai sulla destra per farlo sbilanciare, un colpo laterale a centosessanta all’ora sul suo portabagagli. Se lo avessi centrato lo avrebbe scaraventato al centro della carreggiata, facendolo rotolare via, ma quell’immagine restò solo nella mia mente. La sua macchina era di gran lunga più potente di quanto volesse far credere. Sentii il vuoto dell’aria al posto dell’impatto e con un piccolo slalom tra gli strilli dei copertoni la macchina tronò in equilibrio. La strada nuovamente dritta davanti a me e la sua macchina si allontanava sempre di più.

Ora che mi ero nuovamente concentrato, notai il modello ed un principio di targa. Era una Aleko nera ed il motore doveva essere truccato. Le nostre Riva uscivano potenziate direttamente dalla fabbrica, grazie ad una convenzione con la Lada, ma questi apparecchi entravano solo in possesso degli statali come quelli per cui lavoro. Quella che mi aveva rotto lo specchietto non era una macchina da lavoro, di quello ero certo. Avrei dovuto ammirarlo, probabilmente… soltanto in quel momento il mio cervello fece due più due e si rese conto che volevo compiere un omicidio. Non male come arma del delitto. Commettere omicidi ad alta velocità ti dà il tempo di agire senza chiederti se quello che fai è giusto o sbagliato. Scommetto che un tale rito d’iniziazione ha consacrato molti più assassini di quanto si sapesse in giro. Ma io non ero uno di loro, non in quel momento. Qui non ero a scuola, circondato dai miei carnefici e tenuto sott’occhio dall’autorità vigente. Nessuno era seduto sul sedile del passeggero a dirmi quanto fosse moralmente disgustosa la mia decisione. Da soli, in mezzo all’autostrada, restavano solo i fatti. E questi dicevano che ero un fottuto pazzo drogato. Ma il resto del mondo, anche se lo negava, era in trip con me. Allora approfittai della strada larga e vuota e presi la curva contromano.

Non ero un bracconiere della strada, mi stavo semplicemente difendendo. Difendevo la mia incolumità e quella degli altri fermando quella macchina predatrice. E ancora di più la mia libertà, la possibilità ed il diritto di fuggire dalla prigione che ti costringono a progettare e a costruire fin dall’infanzia, per timore di fantomatici dei che ti sorvegliano dall’alto e di occhi rossi famelici che di notte si nascondono tra i cespugli a lato della strada. Raggiunsi l’Aleko, costretta a seguire la scia del guardrail mentre mi avvicinavo lateralmente ad una velocità che non immaginavo possibile per una semplice aziendale. Questa volta non poté far nulla e l’impatto mi colse di sorpresa per quanto fu violento. L’Aleko sgusciò via dalla corsia e per un attimo fui sicuro che si sarebbe capovolta sbriciolandosi sull’asfalto. Ma quando l’impennata fu quasi compiuta, con uno stridio lancinante la macchina si raddrizzò. L’Aleko imitò il mio paio di slalom e sembrò pronta a tornare in pista, neanche un secondo più tardi. Preso dalla foga, accelerai un’altra volta tentando una nuova manovra di sbilanciamento. Quel bastardo, però, era molto… molto intelligente. Fu in quel momento che mi resi conto di trovarmi di fronte ad un pilota professionista: invece di accelerare e tentare una fuga, inchiodò. Gli occhi rossi dei fanali posteriori mi accecarono di una paura atavica, indiscriminata. Con uno strappo, girai a destra il volante a tutto sterzo e per diversi secondi fui schiavo della gravità. Nel disperato tentativo di riprendere il controllo, voltai opposto al moto dell’auto, ma tutto ciò che ottenni fu un doppio testacoda. Le mie interiora ribollirono in una protesta corale verso la gola. Neanche il cervello parve orientarsi in quel miasma sfocato. Per qualche breve e pericolosissimo istante, andai in standby e il mondo attorno a me si rabbuiò. Quando la luce tornò, la macchina era ferma al centro della strada. Il fianco esposto alle macchine in arrivo. Ed una realizzazione che raggiunse l’inconscio ancor prima del mio rinsavimento.

Un motore si avvicinava. E a grande velocità. Trovai la leva del cambio senza guardare, restando ipnotizzato come un cerbiatto. A fissare la macchina che si avvicinava sempre di più. Misi la retromarcia e tirai giù il pedale infischiandomene di dove mi sarei schiantato. Per un soffio colpì il paraurti, distruggendo il fanale anteriore sinistro. E prim’ancora che mi rendessi conto di essere ancora vivo, sentii la forza di gravità tirarmi giù per la schiena, insieme al resto della vettura. Lo scontro era stato molto, molto breve. Neanche cinque minuti dopo che avevo perso lo specchietto, la mia macchina era già KO ed io a pezzi in un fossato. L’unico lato positivo, per quel che valeva, era la mia sopravvivenza. Sentii lo schianto lungo tutta la colonna vertebrale e il tonfo della Riva sul terriccio mi tolse l’udito per un minutino buono. La prima cosa che feci fu pregare che non decidesse di cadermi addosso e finire il lavoro, ma mi accorsi subito che quella paura era infondata. Mi sincerai delle condizioni della macchina, il motore faceva uno strano rumore. Nonostante ciò, la Riva sembrò reagire alla leva del cambio e dopo un piccolo sforzo riuscì a tirarsi fuori dal terrapieno. Mi ritrovai sulla statale, poco oltre la rampa d’uscita. Dovevo levarmi di torno prima che qualcuno decidesse di passare da quelle parti. Ebbi un attimo d’esitazione, temendo il suono che sarebbe uscito fuori se avessi premuto troppo a fondo l’acceleratore. Purtroppo l’auto aveva preso una brutta botta e sarebbe stato meglio evitare l’autostrada finché non avessi migliorato la situazione, non volevo sforzarla più del necessario. Del resto, se si era ridotta in quello stato era solo colpa mia. Fino a quella mattina avevo sempre provato una certa stizza, trovandomi di fronte la Lada aziendale. Ma in quel momento me ne sentivo… responsabile. La mia migliore amica, il mio mezzo pilotato verso il futuro. L’Aleko era guidata da uno forte, uno di quelli che sulla strada dominano con la brutalità della iena e la velocità di un colibrì. Ed io, non c’è molto altro da aggiungere, sono stato presuntuoso. Potevo assumermi delle responsabilità, quando dovevo. Riconoscere di essere nel torto, quando lo ero. Ma la sensazione che più mi faceva rodere era quella di essere stato punito per aver osato ribellarmi. So che è delirante. Aver premuto l’acceleratore, in quello scatto iracondo, mi ha portato fin lì: su una strada ad alta percorrenza, su una carretta in via d’estinzione. Non riuscivo ancora a riprendere fiato. Ad ogni rombo di motore, soprattutto quelli destabilizzanti provenienti dall’autostrada, la testa si gonfiava d’aria come un pallone. La cosa strana era che sull’autostrada avevo provato di tutto, meno che il panico. Deciso, teso, ma in ogni caso freddo. E tutta l’agitazione del momento, tutta la frenesia del vivere o morire pareva di colpo essersi attanagliata sulle mie spalle. O forse era solo la droga.

Beh, meglio ora che nel mentre, pensai con una punta di ottimismo forzato completamente fuori luogo. Svoltai sulla destra lasciandomi dietro il cavalcavia e finalmente uscii fuori dal territorio autostradale. Le posizioni erano state ristabilite: la corsia veloce ai vincenti e la statale… beh, per me. L’obiettivo principale, ora, era cercare quanto più possibile di riparare la macchina. Non solo per il viaggio, ma soprattutto per non dare nell’occhio. Tirai giù lo specchietto del passeggero e la mappa del vecchio khaganato si srotolò mostrandomi i suoi tesori. La maggior parte dei cerchietti evidenziati era riferita a punti d’interesse autostradali come autogrill, caselli o cose del genere. Ma da qualche parte, in un vecchio progetto fuoriporta, mi ero segnato delle zone rilevanti anche oltre i confini dell’asfalto. Note di quando sognavo di fare il piccolo Kerouac. Vingorod non era poi così lontana. Massimo una mezz’ora, a velocità poco sostenuta. Cercai di scacciare la paura che l’Aleko potesse tornare in qualsiasi momento. Spesso mi agitavo, controllando lo specchietto retrovisore. O quando una macchina s’avvicinava per sorpassarmi, ad una velocità sospetta. Cercai di concentrarmi sulla strada. Ai lati della carreggiata, sopra il muretto, gli sterpi annuali si rinsecchivano giallastri e tesi verso il cielo. Quasi riuscivano a circondare gli alberelli privi di foglie piantati in diagonale. Nella zona d’ombra tra vie cittadine ed autostrada, dove i confini non sono mai ben chiari. In lontananza potevi già scorgere i centri abitati agli svincoli e le pareti che a volte separavano la carreggiata dal resto della campagna si erano prese il diritto d’apparire più variopinte di quelle autostradali. Murales inneggianti al comunismo si susseguivano sulla strada per Vingorod, di quando la città aveva abbandonato le proprie radici viticoltrici nella fede di quella (all’epoca) nuova siderurgica. E questo era che traspariva dai disegni. Le braccia tese rivolte verso una figura illuminata, quasi indistinguibile dal cielo. Le sue mani aperte verso i suoi discepoli con il sorriso paternale di chi nasconde un coltello nel taschino interno.

Le colline su aprirono, le casette tumefatte da qualche intensa recessione economica. Un posto meditativo, dove chiedermi cosa avrei fatto una volta superato il confine. Domande che mettevano in discussione ogni cosa, a cui non volevo pensare. Rimasi concentrato sui lamenti del rumore, fino all’arrivo. Dopo una breve salitella ero entrato nella cittadina. Alla ricerca di un’officina, rallentai il passo scrutando per un’insegna o di una saracinesca aperta con un baule che spuntasse fuori. Poi, trovando aperta una tavola calda, fui alla ricerca soltanto di un parcheggio. Mi infilai da una parte alla bell’e meglio e mi diressi verso il locale rendendomi conto che l’ora di pranzo era passata da un pezzo. Aprii facendomi annunciare da uno scampanellio e un vecchio spuntò da dietro il bancone. Gli feci un cenno e mi indicò, con una punta di seccatura, uno qualunque dei posti liberi svuotati dall’abbiocco post-pranzo. La voce alla radio di Tsoi mi aiutò a decidere la pietanza dal menu. Buttai giù l’holodet e mi schiarii la gola con una kvass. Per spezzare, era compreso un piattino di semechvi. Non esattamente una cosa leggera da digerire per un viaggio, ma gli anni sulla kalininskaja mi avevano inturgidito lo stomaco. E poi la cosa aiutava a rilassarmi. Mi concentrai su ciò che successe sulla strada, sorpreso dal rumore nel locale semivuoto. La consegna che il capo aveva ordinato per il fine settimana. Ancora non capivo come avessi fatto ad ingoiare l’umiliazione ed accettare l’incarico. Non che avessi molta scelta, nonostante si trattasse di un giorno festivo. Ti avrebbe guardato storto anche se avessi detto che avevi un funerale. Risi tra me e me. Ancora un po’ e non ci sarebbe stato nessun capo a strillarti addosso, nessun collega da affogare per rimanere a galla. Dalle mie parti stavano già automatizzando tutto, le scrivanie occupate militarmente dai TSR che avevo visto quella volta a Jena. Soltanto righe di una tabella da scalare, niente di più. Nessuno su cui scatenare la propria violenza, le frustrazioni di una vita. Almeno una volta le esecuzioni erano pubbliche, i licenziamenti gridati in mezzo agli altri per dare l’esempio. Ma non era come a scuola, dove sempre la punizione equivale all’umiliazione. Lì a lavoro le facce ti fissavano con rassegnazione. La più totale impotenza che ci governa da quando abbiamo messo piede su questa Terra. Quella che ho abbandonato girando le chiavi. Ma la guerra, ancora, non era vinta. Quella macchina…

Presto in arrivo il seguito!